ALESSANDRO QUINZI
Il soffio della luce
Il soffio della luce
In lumine tuo videbimus lumen
Psalmus 35 (36),10
Non per motum, sed per lucem, & lumina, ad primam causam ascenditur
Francesco Patrizi, Nova de Universis Philosophia, Ferrara 1591
Le fotografie in bianco-nero di Sergio Scabar richiamano alla memoria il cosidetto Faust inciso da Rembrandt attorno alla metà del Seicento: un uomo anziano, probabilmente non il Faust del titolo affibbiato al foglio a posteriori e che avrebbe ispirato Goethe, ma di certo uno studioso–filosofo, un esegeta delle sacre scritture, che contempla nel silenzio appartato del proprio studio l'apparizione di un disco luminoso, l'epifania stessa della conoscenza fattasi improvvisamente luce.
Ma il titolo dato all'esposizione – "Soffio di luce" – immaginato dallo stesso Scabar, rimanda all'azione genetica della luce, che come un esile soffio, una leggera brezza, un alito silenzioso investe, avvolge e svela le forme, (ri)chiamandole all'esistenza. Queste fotografie documentano l'esito di un processo inverso rispetto alla sublimazione chimica e fisica, registrando il passaggio da uno stato aeriforme, percepibile ma impalpabile, a uno solido, fisico, tattile, il più primigenio tra i sensi, legato anche alla dimensione erotica, qui a sua volta sublimata dalla pienezza della creazione artistica.
Scabar si muove entro un orizzonte di silenzio e lungo il crinale instabile tra luce e non–luce, rinunciando coscientemente a quello che il filosofo francese Jean Guitton ebbe a definire come il "lusso del colore". E la luce, il vero soggetto delle immagini, viene distillata secondo un procedimento che egli stesso definisce alchemico a ribadire l'origine arcana di quella "prima causa" e sottendere, al tempo stesso, alla disadorna forza espressiva dei soggetti scelti: brani paesaggistici, ma soprattutto oggetti della quotidianità, semplici e mai banali, oppure, all'opposto, pezzi ricercati, raccolti e allestiti nel tempo dall'artista in una personale Wunderkammer, che ci viene restituita per frammenti scelti, che vanno ad occupare da soli o assemblati il proscenio del teatro di posa.
Ne citerò due. La naturale bellezza di una conchiglia da leggere in pendant con la sezione di un nautilus, a svelare l'euritmia intrinseca di questo duro manto protettivo, sviluppatosi seguendo una spirale logaritmica, la spira mirabilis – spirale meravigliosa del matematico svizzero Jakob Bernoulli. Un ordine nascosto, ricercato e indagato dal fotografo anche nella stampa ovale dove l'armoniosa complessità dell'insieme è dissimulata da un'apparente semplicità dei mezzi.
La composizione di forme tondeggianti che si stagliano su superfici rettangolari omaggia il Nécessaire per fumatore dipinto da Jean–Baptise–Simeon Chardin attorno al 1737, invertendone però i poli luminosi: in primo piano, in luogo dei "bianchi burrosi" del contenitore per tabacco in porcellana, della caraffa di maiolica e della pipa con l'esile bocchino dipinti dall'artista francese, il fotografo ronchese immortala la calotta di una ciotola di terracotta legata dalla diagonale di un pennello al cilindro diafano di una bottiglia ambrata. La teletta di Chardin, oggi conservata al Louvre di Parigi, non aveva mancato di esercitare il proprio fascino su un altro maestro novecentesco della natura silente quale Giorgio Morandi, che nel 1928 firmò il foglio inciso all'acquaforte della Natura morta con chitarra (Bologna, Museo Morandi).
Anche Scabar predilige dimensioni contenute e le stampe alchemiche non sono di preferenza mai superiori al formato in-folio. Queste dimensioni fanno di primo acchito pensare a una loro fruizione del tutto privata, da connaisseur provvisto di lente d'ingrandimento, brani di una poesia visiva da inframezzare alle pagine di raccolte liriche; la cornice, che l'artista stesso si premura di costruire attorno e per le immagini, le colloca invece al centro di una contemporanea devozionalità domestica, da leggere alla stregua di un memento mori: oggetti quotidiani offerti in meditazione sul senso ultimo della nostra esistenza.
Psalmus 35 (36),10
Francesco Patrizi, Nova de Universis Philosophia, Ferrara 1591
Ma il titolo dato all'esposizione – "Soffio di luce" – immaginato dallo stesso Scabar, rimanda all'azione genetica della luce, che come un esile soffio, una leggera brezza, un alito silenzioso investe, avvolge e svela le forme, (ri)chiamandole all'esistenza. Queste fotografie documentano l'esito di un processo inverso rispetto alla sublimazione chimica e fisica, registrando il passaggio da uno stato aeriforme, percepibile ma impalpabile, a uno solido, fisico, tattile, il più primigenio tra i sensi, legato anche alla dimensione erotica, qui a sua volta sublimata dalla pienezza della creazione artistica.
Scabar si muove entro un orizzonte di silenzio e lungo il crinale instabile tra luce e non–luce, rinunciando coscientemente a quello che il filosofo francese Jean Guitton ebbe a definire come il "lusso del colore". E la luce, il vero soggetto delle immagini, viene distillata secondo un procedimento che egli stesso definisce alchemico a ribadire l'origine arcana di quella "prima causa" e sottendere, al tempo stesso, alla disadorna forza espressiva dei soggetti scelti: brani paesaggistici, ma soprattutto oggetti della quotidianità, semplici e mai banali, oppure, all'opposto, pezzi ricercati, raccolti e allestiti nel tempo dall'artista in una personale Wunderkammer, che ci viene restituita per frammenti scelti, che vanno ad occupare da soli o assemblati il proscenio del teatro di posa.
Ne citerò due. La naturale bellezza di una conchiglia da leggere in pendant con la sezione di un nautilus, a svelare l'euritmia intrinseca di questo duro manto protettivo, sviluppatosi seguendo una spirale logaritmica, la spira mirabilis – spirale meravigliosa del matematico svizzero Jakob Bernoulli. Un ordine nascosto, ricercato e indagato dal fotografo anche nella stampa ovale dove l'armoniosa complessità dell'insieme è dissimulata da un'apparente semplicità dei mezzi.
La composizione di forme tondeggianti che si stagliano su superfici rettangolari omaggia il Nécessaire per fumatore dipinto da Jean–Baptise–Simeon Chardin attorno al 1737, invertendone però i poli luminosi: in primo piano, in luogo dei "bianchi burrosi" del contenitore per tabacco in porcellana, della caraffa di maiolica e della pipa con l'esile bocchino dipinti dall'artista francese, il fotografo ronchese immortala la calotta di una ciotola di terracotta legata dalla diagonale di un pennello al cilindro diafano di una bottiglia ambrata. La teletta di Chardin, oggi conservata al Louvre di Parigi, non aveva mancato di esercitare il proprio fascino su un altro maestro novecentesco della natura silente quale Giorgio Morandi, che nel 1928 firmò il foglio inciso all'acquaforte della Natura morta con chitarra (Bologna, Museo Morandi).
Anche Scabar predilige dimensioni contenute e le stampe alchemiche non sono di preferenza mai superiori al formato in-folio. Queste dimensioni fanno di primo acchito pensare a una loro fruizione del tutto privata, da connaisseur provvisto di lente d'ingrandimento, brani di una poesia visiva da inframezzare alle pagine di raccolte liriche; la cornice, che l'artista stesso si premura di costruire attorno e per le immagini, le colloca invece al centro di una contemporanea devozionalità domestica, da leggere alla stregua di un memento mori: oggetti quotidiani offerti in meditazione sul senso ultimo della nostra esistenza.
studiofaganel, Gorizia, 2014