GIANCARLO PAULETTO
Il silenzio delle cose
Il silenzio delle cose
La ricchezza di un riflesso o il mirabile bilanciamento di un cannello col suo pennino sulla vecchia boccetta d'inchiostro. Tra grigi e neri, la fantastica armonia di toni che levita da un gruppo di bottigliette. Un vecchio catino che, poggiato sopra un tavolo coperto da un panno, diventa immediatamente l'oggetto di un rito sacro. Un'inquadratura di paesaggio come assorbito dal buio. Tutte le immagini di Sergio Scabar, sia che si discorra di specifiche "composizioni", sia che "trattino" elementi di natura – alberi contro il cielo una costa marina, per esempio- nascono da premesse che varrà almeno in parte esplicitare, come contributo ad una percezione dei suoi risultati. Anzitutto vengono scelti degli oggetti, che hanno tutti, - rigidi o morbidi che siano – la caratteristica di essere allusivi. Faccio alcuni esempi. Le posate – cucchiai e forchette – che, disposte in un ordine schierato, ma non meccanico, appaiono nella prima immagine del catalogo, hanno ammaccature che è l'incidenza stessa della luce a porre in evidenza. Sono quindi oggetti usati, vissuti, i classici oggetti che si possono trovare in vecchi cassetti di vecchi tavoli, oggetti da "mercatino", poveri dunque, ma ricchi del fascino simbolico di ciò che ha contenuto la vita e che dalla vita è stato contenuto.
Ecco poi un vecchio libretto di devozioni, aperto sulla significativa icona dell'eucarestia, smangiato agli angoli per l'uso che noi percepiamo di innumerevoli dita. Cinque uova di legno da cucito – quasi un'ironica citazione concettuale volta ad altri esiti – rimandano, con la loro sacra perfezione, a quei pazienti lavori di rammendo, di – potremmo dire- "salvazione" delle cose, che erano necessari e quotidiani in altri tempi, venuti prima del consumo totalmente "usa e getta". E si potrebbe continuare, perché anche quando si tratta di oggetti apparentemente neutri, cioè non necessariamente indicatori di tempi passati, s'incarica poi la composizione a determinare l'aura di riferimento: che, ad esempio, per ciò che riguarda le composizioni con bottiglie, non può che essere lo sguardo metafisico di Morandi, o, per ciò che riguarda certe "nature morte", la fredda, ma non arida, fissità di un Ferroni. Indicazioni di clima, naturalmente le quali tuttavia hanno il senso preciso di collocare il lavoro di Scabar nell'aura che gli compete, quella di una metaforizzazione delle cose compiute nel consapevole rimando ad un ambito culturale che ha riferimenti in Italia come in Europa. E ci sono poi gli oggetti "morbidi", degli stracci per esempio, o dei veli di plastica che si accostano o parzialmente coprono altri oggetti, o la sostenuta – ma anche sfiancata – prolissità di foglietti di lettere trasferibili: un "molle", insomma, che tuttavia si riscatta nella perfetta formalizzazione, come del resto accade anche ai tagli di paesaggio, che spirano in una crepuscolarità tuttavia ferma, data una volta per sempre. Così lo straccio che si fissa all'appena suggerita struttura triangolare, o quello che si alza, come una specie di mantello sacro, da un buio supporto, perdono tutta la loro "mollezza", diventando icone allo stesso titolo delle bottiglie, del bicchiere con il cucchiaio, della sfera rotonda posta su un supporto conico.
L'esempio limite di questa capacità-volontà di Scabar di togliere il tempo reale dall'immagine, per fissarla in un "passato" che proprio per essere tale è determinato una volta per sempre, è rappresentato da quelle che si possono chiamare le "composizioni con il fuoco", dove la fiamma medesima diventa parte di un "factum", di un "consummatum", con il senso mutamente sacrificale che nel termine è compreso. Icone, dunque, ed è appunto la composizione che si incarica di definirle come tali. La centralizzazione è costante, solo quel minimo dislocata che serva a farla percepire in modo ancora più chiaro, più immediato: torno all'esempio del cannello sulla boccetta d'inchiostro, o a quello, perfetto, del vecchio catino, o alla splendida natura morta con involucro, bottiglia e scodella, o al classico "teatrino" delle bottigliette che traspaiono da una specie di boccascena; in realtà questi oggetti non sono in un vero e proprio spazio, sono piuttosto immersi in una sorta di allucinazione nella quale lasciano depositare, come scaglie chiare dentro acque scure, tutto il mistero silenzioso – come appunto dice il titolo della mostra – del loro esistere. Ed è proprio –terzo elemento- l'uso della luce a definire compiutamente la loro natura di metafore. La luce fa emergere la forma, suscita i riflessi come note di un accordo, anima i contorni e contemporaneamente li attutisce.
A poco a poco il buio delle immagini finisce di essere tale, diventa il suo contrario, un tentativo di definizione perfetta, la ripartenza verso una nuova comprensione del reale, che è, naturalmente, da pensare oltre l'"uso" delle cose, oltre la loro riduzione a puro strumento nelle mani del consumo sociale. Le mie scarsissime competenze fotografiche mi dispensano anche dall'accenno ai modi tecnici con cui Scabar raggiunge i suoi risultati: quali che siano, comunque, questi modi tecnici, alla fine essi parlano attraverso la presenza di immagini che sono un invito alla meditazione. La loro natura colta, certamente anche letteraria, nulla toglie alla loro bellezza, al contrario la arricchisce di riferimenti al tempo stesso necessari e fortemente suggestivi.
Ecco poi un vecchio libretto di devozioni, aperto sulla significativa icona dell'eucarestia, smangiato agli angoli per l'uso che noi percepiamo di innumerevoli dita. Cinque uova di legno da cucito – quasi un'ironica citazione concettuale volta ad altri esiti – rimandano, con la loro sacra perfezione, a quei pazienti lavori di rammendo, di – potremmo dire- "salvazione" delle cose, che erano necessari e quotidiani in altri tempi, venuti prima del consumo totalmente "usa e getta". E si potrebbe continuare, perché anche quando si tratta di oggetti apparentemente neutri, cioè non necessariamente indicatori di tempi passati, s'incarica poi la composizione a determinare l'aura di riferimento: che, ad esempio, per ciò che riguarda le composizioni con bottiglie, non può che essere lo sguardo metafisico di Morandi, o, per ciò che riguarda certe "nature morte", la fredda, ma non arida, fissità di un Ferroni. Indicazioni di clima, naturalmente le quali tuttavia hanno il senso preciso di collocare il lavoro di Scabar nell'aura che gli compete, quella di una metaforizzazione delle cose compiute nel consapevole rimando ad un ambito culturale che ha riferimenti in Italia come in Europa. E ci sono poi gli oggetti "morbidi", degli stracci per esempio, o dei veli di plastica che si accostano o parzialmente coprono altri oggetti, o la sostenuta – ma anche sfiancata – prolissità di foglietti di lettere trasferibili: un "molle", insomma, che tuttavia si riscatta nella perfetta formalizzazione, come del resto accade anche ai tagli di paesaggio, che spirano in una crepuscolarità tuttavia ferma, data una volta per sempre. Così lo straccio che si fissa all'appena suggerita struttura triangolare, o quello che si alza, come una specie di mantello sacro, da un buio supporto, perdono tutta la loro "mollezza", diventando icone allo stesso titolo delle bottiglie, del bicchiere con il cucchiaio, della sfera rotonda posta su un supporto conico.
L'esempio limite di questa capacità-volontà di Scabar di togliere il tempo reale dall'immagine, per fissarla in un "passato" che proprio per essere tale è determinato una volta per sempre, è rappresentato da quelle che si possono chiamare le "composizioni con il fuoco", dove la fiamma medesima diventa parte di un "factum", di un "consummatum", con il senso mutamente sacrificale che nel termine è compreso. Icone, dunque, ed è appunto la composizione che si incarica di definirle come tali. La centralizzazione è costante, solo quel minimo dislocata che serva a farla percepire in modo ancora più chiaro, più immediato: torno all'esempio del cannello sulla boccetta d'inchiostro, o a quello, perfetto, del vecchio catino, o alla splendida natura morta con involucro, bottiglia e scodella, o al classico "teatrino" delle bottigliette che traspaiono da una specie di boccascena; in realtà questi oggetti non sono in un vero e proprio spazio, sono piuttosto immersi in una sorta di allucinazione nella quale lasciano depositare, come scaglie chiare dentro acque scure, tutto il mistero silenzioso – come appunto dice il titolo della mostra – del loro esistere. Ed è proprio –terzo elemento- l'uso della luce a definire compiutamente la loro natura di metafore. La luce fa emergere la forma, suscita i riflessi come note di un accordo, anima i contorni e contemporaneamente li attutisce.
A poco a poco il buio delle immagini finisce di essere tale, diventa il suo contrario, un tentativo di definizione perfetta, la ripartenza verso una nuova comprensione del reale, che è, naturalmente, da pensare oltre l'"uso" delle cose, oltre la loro riduzione a puro strumento nelle mani del consumo sociale. Le mie scarsissime competenze fotografiche mi dispensano anche dall'accenno ai modi tecnici con cui Scabar raggiunge i suoi risultati: quali che siano, comunque, questi modi tecnici, alla fine essi parlano attraverso la presenza di immagini che sono un invito alla meditazione. La loro natura colta, certamente anche letteraria, nulla toglie alla loro bellezza, al contrario la arricchisce di riferimenti al tempo stesso necessari e fortemente suggestivi.
Il Momento, 2004