CLAUDIO ERNÈ
Il silenzio delle cose
Il silenzio delle cose
È a un passo dalla meta, dalla conclusione del percorso intrapreso tanti anni fa. Sergio Scabar in questo momento è disperatamente solo di fronte alla notte e alla nebbia delle sue immagini e più in là non può andare dopo aver progressivamente frantumato il linguaggio fotografico. Prima ha rinunciato al colore e alle sue facili suggestioni. Poi ha volutamente dimenticato la luce del sole, rifugiandosi nelle penombre e nelle indefinite sfumature del nero; infine ha abbandonato ogni suggestione prospettica, cara ai fotografi. La figura umana era uscita di scena da tempo immemorabile o forse non vi era mai entrata.
Ora con questa mostra dove le poche immagini sono separate da spazi sempre più ampi di silenzio e sospensione, il percorso della progressiva spogliazione è finito e non esistono per l’autore vie alternative. Il paesaggio urbano di una Trieste onirica e disperata ha rappresentato l’ultima speranza per Sergio Scabar di eludere il richiamo del vuoto; altrettanto era già accaduto per le spiagge notturne, per gli alberi persi nella nebbia bruna dell’alba, per le nuvole opalescenti di cieli da catastrofe nucleare.
Il discorso sofferto dell’autore è ritornato così al suo teatro delle cose: antichi volumi polverosi, sudari, lumini, macchine che volevano fermare sulla pellicola il sentimento del tempo, foglie, conchiglie. C’è anche una misteriosa bottiglia nera piantata nel mezzo della superficie appena appena illuminata. Le dimensioni non sono valutabili, il contenuto nemmeno. Acqua, vino, veleno, profumo, acido, latte, sudore, benzina, sangue, esplosivo, olio santo. Il vetro, se vetro è, e non metallo o plastica, è opaco, serico, vellutato, polveroso. Una bottiglia che scavalca le tecnologie, intreccia la storia, rifiuta la definizione del tempo. Il relitto di un rito interrotto, un grido nel buio che ci circonda.
Sergio Scabar oltre a questo non può andare. Non può togliere nulla alle sue immagini, pena il silenzio. Ecco perché la bottiglia-monolite rappresenta il passo finale di un percorso intrapreso tanti anni fa. Non ci si può più abbandonare ad accarezzare i detriti polverosi del passato facendo scivolare nostalgicamente tra le dita i resti consunti. Non è possibile nemmeno allargare l’orizzonte, perché il colore, la luce, la prospettiva, la figura umana sono già lontane dalla scena. Ripudiate , frantumate, dimenticate. C’è solo notte e nebbia e qualche immagine bruna e combusta, adeguatamente distanziata dalle altre. Il suono di un processo di dissoluzione e di abbandono, il peso del tempo e delle sue pause. Il commiato della fotografia come l’abbiamo conosciuta dal quel giorno del 1839 in cui su una lastra d’argento tirata a specchio, la luce del sole scrisse il primo dagherrotipo.
Ora con questa mostra dove le poche immagini sono separate da spazi sempre più ampi di silenzio e sospensione, il percorso della progressiva spogliazione è finito e non esistono per l’autore vie alternative. Il paesaggio urbano di una Trieste onirica e disperata ha rappresentato l’ultima speranza per Sergio Scabar di eludere il richiamo del vuoto; altrettanto era già accaduto per le spiagge notturne, per gli alberi persi nella nebbia bruna dell’alba, per le nuvole opalescenti di cieli da catastrofe nucleare.
Il discorso sofferto dell’autore è ritornato così al suo teatro delle cose: antichi volumi polverosi, sudari, lumini, macchine che volevano fermare sulla pellicola il sentimento del tempo, foglie, conchiglie. C’è anche una misteriosa bottiglia nera piantata nel mezzo della superficie appena appena illuminata. Le dimensioni non sono valutabili, il contenuto nemmeno. Acqua, vino, veleno, profumo, acido, latte, sudore, benzina, sangue, esplosivo, olio santo. Il vetro, se vetro è, e non metallo o plastica, è opaco, serico, vellutato, polveroso. Una bottiglia che scavalca le tecnologie, intreccia la storia, rifiuta la definizione del tempo. Il relitto di un rito interrotto, un grido nel buio che ci circonda.
Sergio Scabar oltre a questo non può andare. Non può togliere nulla alle sue immagini, pena il silenzio. Ecco perché la bottiglia-monolite rappresenta il passo finale di un percorso intrapreso tanti anni fa. Non ci si può più abbandonare ad accarezzare i detriti polverosi del passato facendo scivolare nostalgicamente tra le dita i resti consunti. Non è possibile nemmeno allargare l’orizzonte, perché il colore, la luce, la prospettiva, la figura umana sono già lontane dalla scena. Ripudiate , frantumate, dimenticate. C’è solo notte e nebbia e qualche immagine bruna e combusta, adeguatamente distanziata dalle altre. Il suono di un processo di dissoluzione e di abbandono, il peso del tempo e delle sue pause. Il commiato della fotografia come l’abbiamo conosciuta dal quel giorno del 1839 in cui su una lastra d’argento tirata a specchio, la luce del sole scrisse il primo dagherrotipo.
Galleria La Roggia, Pordenone, 2004