GUIDO CECERE
Alla ricerca della visione
Alla ricerca della visione
Sergio Scabar da oltre quaranta anni pratica la Fotografia con estremo rigore ma in special modo negli ultimi dodici anni ha scelto di concentrarsi ancor di più sulle potenzialità espressive specifiche del mezzo usato in maniera tradizionale (chimica/alchemica) con una sua forte e personalissima impronta artigianale.
Questo volume presenta due grandi tematiche che costituiscono gli assi portanti della sua ricerca negli anni più recenti: il "teatro delle cose" e le "visioni di spazi".
Nella prima, la più ricca, si è subito misurato con i due elementi fondamentali del suo modo di fotografare e quindi di esprimersi: la luce e la composizione. Ma guardando i suoi lavori dobbiamo innanzitutto fare i conti con un'altra caratteristica peculiare, cioè la dimensione della stampa finale. Scabar sceglie di non urlare con formati impattanti come fanno invece molti dei fotografi contemporanei, magari anche un po' trendy, ma piuttosto di sussurrare con piccoli formati che ci obbligano oltretutto ad avvicinarci all'opera, a sostare davanti ad essa, instaurando così un rapporto più intimo e diretto con l'immagine, meno veloce e superficiale. La lettura è intenzionalmente resa più difficoltosa del solito dalla scelta di quella che in gergo fotografico si chiama low key, cioè gamma tonale sbilanciata ad arte sui toni bassi della scala dei grigi.
La luce è fioca, spesso un flebile barlume, quanto basta a creare una speciale sensazione di mistero e di silenzio, direi anche di sensualità. Già, perché gli oggetti non si concedono palesemente allo sguardo, non si mostrano del tutto ma si lasciano intravedere quel poco che basta a percepirli e apprezzarli, e questo vedo/non vedo diventa una modalità di fruizione assai affascinante ed intrigante.
Se poi siamo particolarmente attratti dal soggetto, l'insistenza del nostro sguardo fa sì che il diaframma oculare, permanendo su una superficie scura, si dilati ancor di più e così, come per magia, scopriamo che quelle che a prima vista sembravano zone "buie" e quindi non parlanti, rivelano invece ulteriori dettagli e informazioni: l'opera acquista così una nuova insospettata profondità in senso visivo e, di conseguenza, narrativo.
Ma quali sono i protagonisti di questo "teatro"? Sono libri, scatole, bottiglie, utensili, elementi naturali, cercati e scelti quasi tutti nel mondo del passato che li arricchisce di qualità materiche e semantiche, raggruppati con sapiente bilanciamento che tiene in gran conto non solo le forme degli oggetti, ma anche la forma ed il valore del vuoto, determinante nella composizione e nell'arricchimento di quel senso di sospensione per il "non detto".
E ben consapevole che "less is more", Scabar pratica costantemente un lavoro "a togliere" che lo porta, in certi casi, fino ad un'elegante ed estrema semplicità minimale in cui lo spazio del buio è sovranamente gestito da forme pure e splendidamente solitarie.
Altre volte invece, bottigliette, contenitori o attrezzi s'appoggiano l'un l'altro quasi a formare armonici "cori": la luce scivola e s'insinua nell'essenzialità dei volumi e l'ordinario diventa sorprendente.
Lo spazio in cui tutto ciò avviene è spesso un mini palcoscenico con tanto di pedana, a volte un podio, altre un semplice telo che fa da scenario. La foto è quindi un lavoro di messa in scena dichiarato, con costruzione di mondi sempre diversi, mentre in altri casi il buio annulla la scena e veniamo proiettati nella piena vuotezza dello spazio, immersi in un tempo senza data.
La seconda parte della ricerca artistica qui presentata riguarda un'indagine sullo spazio esterno, in particolare su spazi naturali incontaminati.
Scabar abbandona il chiuso dello studio, il controllo delle luci e assapora il fascino della Fotografia cercata e trovata in mezzo alla natura, quella che sa ancora di natura, priva di segni di violenza o sopraffazione da parte dell'uomo, alla ricerca di un'ultima Arcadia in cui scoprire una realtà più intima e quasi astratta rispetto al vissuto quotidiano.
Ancora una volta la scelta creativa è quella di cercare la luce, ma come bilanciamento del buio, una luce all'orizzonte quasi come crepuscolo o tramonto in antitesi a un buio soffuso. Gli scorci che sorprendentemente si aprono davanti ai nostri occhi sono una sorta di rivelazione di un mondo naturale spesso sognato e ora adagiato in orizzontale dentro inquadrature che rifiutano la durezza geometrica degli spigoli perché vanno a sfumare nelle "vignettature" angolari che ci riportano ad un sapore ottocentesco, di quando il cono ottico degli obiettivi di allora non ce la faceva a coprire omogeneamente l'intero formato.
Si crea così una sorta di tunnel visivo in cui l'occhio s'infila, magneticamente attratto dal punto di maggior luce, verso il quale punta e si dirige, libero di vagare alla ricerca di dettagli solo in un secondo momento. E i dettagli li trova in grande quantità. Se nella ricerca degli still life prevaleva l'essenzialità, in questa parte di lavoro, invece, la scelta è quella della complessità di segni, ritmi e vibrazioni che brulicano nella descrizione di tronchi, rami, foglie, pietre, riflessi di una natura sorprendentemente ricca e autentica, dove se un tronco cade, non viene raccolto e fatto a pezzi, ma lasciato marcire nell'acqua, dove la materia si sposa con altra materia, nella spontanea e perfetta simbiosi di un ciclo vitale antico come la terra.
I cieli sono cupi, a volte plumbei, ma si percepisce chiaramente che si tratta di un intervento creativo dell'artista nella fase di stampa in camera oscura, che in questo modo ribadisce l'importanza del controllo della modulazione della luce (e soprattutto delle ombre) a suo piacimento. Una sorta di riappropriazione della gestione del rapporto luce/ombra che nelle riprese in esterno non è plasmabile come nell'atelier perchè la luce è data e non creata dall'autore. Il risultato è di un'atmosfera che chiede silenzio, che crea stupore e quasi soggezione, rispetto per uno spettacolo preciso e misterioso, che può apparirci singolare, ma in cui la dimensione del tempo è ancora una volta sfumata verso l'indeterminato e comunque orientata verso il passato.
Quando infine lo sguardo di Sergio Scabar si rivolge verso l'orizzonte il risultato è una straordinaria fusione fra il romanticismo di Gustave Le Gray e il concettualismo di Hiroshi Sugimoto, alla ricerca del recupero di una visione pura e ancestrale, quella che tutti sognamo: "la" visione.
Questo volume presenta due grandi tematiche che costituiscono gli assi portanti della sua ricerca negli anni più recenti: il "teatro delle cose" e le "visioni di spazi".
Nella prima, la più ricca, si è subito misurato con i due elementi fondamentali del suo modo di fotografare e quindi di esprimersi: la luce e la composizione. Ma guardando i suoi lavori dobbiamo innanzitutto fare i conti con un'altra caratteristica peculiare, cioè la dimensione della stampa finale. Scabar sceglie di non urlare con formati impattanti come fanno invece molti dei fotografi contemporanei, magari anche un po' trendy, ma piuttosto di sussurrare con piccoli formati che ci obbligano oltretutto ad avvicinarci all'opera, a sostare davanti ad essa, instaurando così un rapporto più intimo e diretto con l'immagine, meno veloce e superficiale. La lettura è intenzionalmente resa più difficoltosa del solito dalla scelta di quella che in gergo fotografico si chiama low key, cioè gamma tonale sbilanciata ad arte sui toni bassi della scala dei grigi.
La luce è fioca, spesso un flebile barlume, quanto basta a creare una speciale sensazione di mistero e di silenzio, direi anche di sensualità. Già, perché gli oggetti non si concedono palesemente allo sguardo, non si mostrano del tutto ma si lasciano intravedere quel poco che basta a percepirli e apprezzarli, e questo vedo/non vedo diventa una modalità di fruizione assai affascinante ed intrigante.
Se poi siamo particolarmente attratti dal soggetto, l'insistenza del nostro sguardo fa sì che il diaframma oculare, permanendo su una superficie scura, si dilati ancor di più e così, come per magia, scopriamo che quelle che a prima vista sembravano zone "buie" e quindi non parlanti, rivelano invece ulteriori dettagli e informazioni: l'opera acquista così una nuova insospettata profondità in senso visivo e, di conseguenza, narrativo.
Ma quali sono i protagonisti di questo "teatro"? Sono libri, scatole, bottiglie, utensili, elementi naturali, cercati e scelti quasi tutti nel mondo del passato che li arricchisce di qualità materiche e semantiche, raggruppati con sapiente bilanciamento che tiene in gran conto non solo le forme degli oggetti, ma anche la forma ed il valore del vuoto, determinante nella composizione e nell'arricchimento di quel senso di sospensione per il "non detto".
E ben consapevole che "less is more", Scabar pratica costantemente un lavoro "a togliere" che lo porta, in certi casi, fino ad un'elegante ed estrema semplicità minimale in cui lo spazio del buio è sovranamente gestito da forme pure e splendidamente solitarie.
Altre volte invece, bottigliette, contenitori o attrezzi s'appoggiano l'un l'altro quasi a formare armonici "cori": la luce scivola e s'insinua nell'essenzialità dei volumi e l'ordinario diventa sorprendente.
Lo spazio in cui tutto ciò avviene è spesso un mini palcoscenico con tanto di pedana, a volte un podio, altre un semplice telo che fa da scenario. La foto è quindi un lavoro di messa in scena dichiarato, con costruzione di mondi sempre diversi, mentre in altri casi il buio annulla la scena e veniamo proiettati nella piena vuotezza dello spazio, immersi in un tempo senza data.
La seconda parte della ricerca artistica qui presentata riguarda un'indagine sullo spazio esterno, in particolare su spazi naturali incontaminati.
Scabar abbandona il chiuso dello studio, il controllo delle luci e assapora il fascino della Fotografia cercata e trovata in mezzo alla natura, quella che sa ancora di natura, priva di segni di violenza o sopraffazione da parte dell'uomo, alla ricerca di un'ultima Arcadia in cui scoprire una realtà più intima e quasi astratta rispetto al vissuto quotidiano.
Ancora una volta la scelta creativa è quella di cercare la luce, ma come bilanciamento del buio, una luce all'orizzonte quasi come crepuscolo o tramonto in antitesi a un buio soffuso. Gli scorci che sorprendentemente si aprono davanti ai nostri occhi sono una sorta di rivelazione di un mondo naturale spesso sognato e ora adagiato in orizzontale dentro inquadrature che rifiutano la durezza geometrica degli spigoli perché vanno a sfumare nelle "vignettature" angolari che ci riportano ad un sapore ottocentesco, di quando il cono ottico degli obiettivi di allora non ce la faceva a coprire omogeneamente l'intero formato.
Si crea così una sorta di tunnel visivo in cui l'occhio s'infila, magneticamente attratto dal punto di maggior luce, verso il quale punta e si dirige, libero di vagare alla ricerca di dettagli solo in un secondo momento. E i dettagli li trova in grande quantità. Se nella ricerca degli still life prevaleva l'essenzialità, in questa parte di lavoro, invece, la scelta è quella della complessità di segni, ritmi e vibrazioni che brulicano nella descrizione di tronchi, rami, foglie, pietre, riflessi di una natura sorprendentemente ricca e autentica, dove se un tronco cade, non viene raccolto e fatto a pezzi, ma lasciato marcire nell'acqua, dove la materia si sposa con altra materia, nella spontanea e perfetta simbiosi di un ciclo vitale antico come la terra.
I cieli sono cupi, a volte plumbei, ma si percepisce chiaramente che si tratta di un intervento creativo dell'artista nella fase di stampa in camera oscura, che in questo modo ribadisce l'importanza del controllo della modulazione della luce (e soprattutto delle ombre) a suo piacimento. Una sorta di riappropriazione della gestione del rapporto luce/ombra che nelle riprese in esterno non è plasmabile come nell'atelier perchè la luce è data e non creata dall'autore. Il risultato è di un'atmosfera che chiede silenzio, che crea stupore e quasi soggezione, rispetto per uno spettacolo preciso e misterioso, che può apparirci singolare, ma in cui la dimensione del tempo è ancora una volta sfumata verso l'indeterminato e comunque orientata verso il passato.
Quando infine lo sguardo di Sergio Scabar si rivolge verso l'orizzonte il risultato è una straordinaria fusione fra il romanticismo di Gustave Le Gray e il concettualismo di Hiroshi Sugimoto, alla ricerca del recupero di una visione pura e ancestrale, quella che tutti sognamo: "la" visione.
Silenzio di Luce, Edizioni Marte, 2008