SABRINA ZANNIER
Il teatro delle cose
Tra luce e ombra. tra bianco e nero, tra sguardo che accarezza oggetti inseriti in una sorta di set costruito appositamente e sguardo, invece, che ritaglia fette di realtà trovata: questi sono i sentieri entro i quali nasce la fotografia di Sergio Scabar. Una fotografia che svela il volto nascosto del nostro tempo. Un volto imperniato di spirito nostalgico, dal quale affiora un passato fatto di tempi lunghi e atmosfere sospese, che si catapulta nell'oggi a ridosso della sentita urgenza di virare la banalità quotidiana in stra-ordinarietà del vissuto, attraverso lo sguardo che seleziona le più disparate tracce.
Il Teatro delle cose è il titolo di una serie di lavori, ma anche l'espressione più idonea a definire l'intero corpo di opere prodotte da Scabar in questi ultimi anni, laddove la fotografia presuppone un programma creativo dotato di cernita di oggetti legati per lo più a esperienze solipsistiche e a una dimensione introspettiva, come la lettura (da qui le diverse immagini di libri antichi), o la stessa prassi della stampa fotografica, condotta in camera oscura lungo i fascinosi sentieri della chimica, che nell'immaginario collettivo contemplano anche la magia dell'alchimia. Oggetti selezionati e poi "teatralizzati" come esclusivi attori di un "palcoscenico" in cui la presenza dell'uomo si smaterializza nella potenzialità dello sguardo, per poi riabilitare la sua fisicità nella dimensione fabbrile della preparazione della carta da stampa e nei processi di sviluppo. Scabar ridisegna così il passo della più antica e tradizionale prassi fotografica; rifuggendo al digitale dà nuovo corso alla "magia" della fotochimica, dove l'estesissima gamma dei neri l'effetto quasi abbacinante di alcune minutissime tracce bianche lascia l'osservatore con il fiato sospeso, con il pensiero ronzante tra fotografia e pittura. Ma solo ed esclusivamente di fotografia si tratta. L'unico ammiccamento alla pittura è dato dalla meticolosità, pittorica per l'appunto,con la quale tratta le cornici, una ad una, una diversa dall'altra, ognuna pensata e realizzata per quell'immagine. Immagine unica, irriproducibile proprio perché ottenuta nella sua particolarità in fase di stampa e non di scatto. Una fotografia, quella di Scabar, allora, che recuperando il suo originario sapore fabbrile, concettualmente tradisce la sua altrettanto specifica detronizzazione dell'aura intrinseca al principio della riproducibilità.
Una fotografia che dal "teatro delle cose" ora s'inoltra anche nel paesaggio, restituito, alla stregua di un libro, di una bottiglia, di un rullino, come un "luogo" interiorizzato dal potere metamorfico dello sguardo entro un processo di lenta apparizione, di felpato svelamento.
Una lentezza, quella di Scabar, che sembra tracciare il passo di un pensiero votato alla meraviglia delle piccole cose. Di primo acchito tutto appare buio; un buio animato da flebili ombre che, a poco a poco divengono forme, oggetti carichi di sottili simbologie e profonde memorie. Oggetti che poi ne svelano altri dichiarando nuovi equilibri, come quando, dopo essere piombati di colpo nell'oscurità di una stanza, dalla totale cecità riacquistiamo di lì a poco la capacità di muoverci tra le ombre, per poi ridefinire il nostro rapporto con le cose su un sentiero spostato, più intimo e ravvicinato.
 
Juliet, febbraio 2002