CHIARA TAVELLA
Opere fotografiche
Dai primi anni '90 ad oggi il lavoro di Sergio Scabar cade sotto il titolo complessivo di "Teatro delle cose". Più che un titolo, un'enunciazione programmatica, chiave della poetica dell'artista.
La sua è una fotografia di "cose", appunto: vecchi arnesi, stoviglie, soprattutto oggetti legati al passato della fotografia – camere ottiche, obiettivi, confezioni di pellicole e di carta fotosensibile – disposte su un fondo neutro creato da una tela a trama grossa, accuratamente composte come se fossero "in posa" . Il punto di vista è rigorosamente centrale; la luce è quella irreale, uniforme di provenienza indefinita, della fotografia di inizio secolo, ma intonata su una gamma scura, ottenuta con un raffinato procedimento di stampa che accentua i toni bassi e immerge queste "cose" – già per se stesse così espressive, connotate da una qualità affettiva e nostalgica – in un'ombra polverosa, pregna di passato.
Molteplici i riferimenti culturali che danno spessore a queste immagini, non solo citazioni esteriori ma rimandi funzionali alla densità semantica dell'opera: gli oggetti così imbanditi sembrano citare le origini stesse della fotografia – o almeno una delle diverse origini – la Tavola apparecchiata di Nicéphore Niepce. La luce, come si diceva, ha quella irreale neutralità e uniformità che si ritrova , per esempio, nelle fotografie di Alinari, dovuta in quel caso alle limitate possibilità della carta fotosensibile dell'epoca, ora a una sapiente regia luminosa che punta a ottenere preziose, metalliche lumeggiature sul magma bruno dell'immagine. Mentre la tela di fondo e la disposizione in posa degli oggetti, ricordano certe fotografie di famiglia, con le figure schierate in fila, in ossequiente ordine gerarchico, davanti a improbabili sfondi finti. Il genere è chiaramente quello dello "still life", definizione che denota la natura morta in fotografia.
Ma direi che la ricerca di Scabar ha anche più stretti rapporti con la tradizione della natura morta pittorica, di cui riprende l'impostazione compositiva e certi stilemi formali (lo sfondo neutro, la studiata, dichiarativa disposizione degli oggetti). Entro i confini di tale genere visivo, occupa quella fascia alta e rarefatta in cui la rappresentazione dell'oggetto, proprio attraverso l'esasperazione della definizione minima del dettaglio, va oltre il reale e assume una valenza metafisica – come in certe immagini di Kertesz, per stare alla fotografia, o, in pittura, alle nature morte di Morandi: la stessa incantata, innaturale astanza degli oggetti, lo stesso silenzio allucinato e sospeso.
La fotografia di Scabar è dunque una fotografia dotta, letteraria, afferente a quel clima spirituale decadente così caratteristico della cultura giuliana e mitteleuropea. Anche senza voler renderne espliciti i rimandi, essa "allude", "ricorda" un qualchecosa – spessori di memoria che un occhio europeo conserva, anche solo inconsciamente, dietro la retina.
Da qui, quest'ombra cupa, da questa atmosfera densa, palpabile, scaturisce il senso generale di queste immagini, un senso di finzione e insieme di ineluttabile fine. Il procedimento della stampa, che Scabar cura con meticolosa precisione, acquista allora il valore di un rituale, funerea celebrazione in cui la ricerca ossessiva del dettaglio, dell'evidenza delle "cose", suona, paradossalmente, come il tentativo di esorcizzarne l'affondamento nel nulla.
 
Galleria Grigoletti, Pordenone, 1999