ANGELA MADESANI
Elegia di minimi
Elegia è un termine poetico e non a caso abbiamo deciso di utilizzarlo per Sergio Scabar, il cui lavoro con un aggettivo sempre meno utilizzato in ambito artistico rientra propriamente in questa sfera. Le sue fotografie sono tutte pezzi unici. Pare un ossimoro, ma così non è. Qui non ci si può porre di fronte al concetto di riproducibilità tecnica propria della fotografia. Così Walter Benjamin nella Piccola storia della fotografia in L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica. Qui le cose sono diverse: la fotografia è un mezzo, un linguaggio che Scabar utilizza ormai da cinquant'anni per le sue ricerche, ma lo scopo non è semplicemente quello di documentare, quanto piuttosto di registrare frammenti silenti di esistenza nella loro irripetibile unicità.
La sua è una ricerca artistica. Nulla di artigianale, di fabbrile come è stato più volte scritto al proposito. Scabar è artista raffinato, lettore appassionato, conoscitore di immagini. Nel suo studio è un grande pannello di legno in cui sono appese moltissime immagini, piccoli ritratti, biglietti e inviti di mostre: è il riassunto di una vita passata nell'arte e con l'arte. Dell'unicità del suo lavoro è parte anche la cornice, momento fondamentale, che attribuisce di volta in volta un senso alle cose. Sono direttamente realizzate dall'artista, senza vetro, senza passepartout. In altra maniera Scabar le percepirebbe come qualcosa di seriale, di industriale. Alcune sono ricavate da cornici già esistenti, appositamente sistemate, altre sono create ex nihilo. La stampa è alchemica, in bianco e nero, dai toni bassi, su carta baritata. Ogni lavoro richiede una cura particolare, una dedizione straordinaria. Dedizione che è richiesta anche a chi guarda, che non può consumare quanto vede in un battito d'ali. Lo spettatore, il lettore dell'immagine è chiamato all'attenzione, ad andare oltre le apparenze. Il suo immaginario personale si fa collettivo proprio attraverso la creazione delle opere, prodotte con la parsimonia di coloro che amano riflettere, consumati dall'ossessione di quanto stanno facendo.
Titolo della mostra è elegia di minimi appunto. Il riferimento è a uno dei grandi maestri della storia dell'arte italiana, a quel Roberto Longhi che parlava di “questione di minimi” a proposito di alcune complesse vicende della pittura del Quattrocento. I minimi sono i dettagli e quella storia dell'arte è qui presente in toto. Piero della Francesca, i nordici, ma anche Morandi, altro grande amore del critico albese. Qui Morandi è presente, sin troppo facile ammetterlo e notarlo, ma il lavoro di Scabar è altra cosa. Certo nature morte, oggetti, ma quelle alle quali Morandi dà vita, da pittore, sono icone, questi dell'artista giuliano, sono indici, ci troviamo di fronte a immagini analogiche.
è bene sottolinearlo: il legame con quelli che Scabar considera maestri più o meno vicini da Giorgio Morandi, appunto, a Gianfranco Ferroni, a Josef Sudek, a Franco Vimercati, è di natura spirituale, assai più che formale. Una spiritualità laica, naturalmente, di un laicismo francescano, che giunge senza sforzo alcuno all'essenza dei fenomeni.
Quella di Scabar è poesia della visione, dello sguardo, cibo imprescindibile per lo spirito e per la mente e non si scambino queste parole per vuota retorica. Anzi, oggi più che mai mi pare necessario auspicare a tutto questo, in un momento, la surmodernità, in cui tutto deve rendere da un punto di vista economico, in cui tutto deve essere veloce da fare e da consumare.
Scabar vive nel suo mondo in cui il tempo è sospeso, come in certe forme di classicità. La sua ricerca non è al passo con i tempi, nel senso effimero del termine. è, piuttosto, una risposta intelligente e profonda a quanto lo circonda, lo stimola, lo fa riflettere. è interessato a dare vita a un dialogo tra presente e passato, gli preme ridare nuova vita alle cose, che siano vecchie cornici o che sia lo studio, l'assunzione, la metabolizzazione della storia dell'arte e delle immagini.
Certi filetti di luce più contrastati, presenti nelle sue foto dalla stampa opaca e vellutata, sono come le piccole pennellate bianche di certa pittura, che servono a dare al dipinto una luce particolare. Nulla di plateale, di vistoso. Le sue non sono mai citazioni, piuttosto mutamenti di stato, di condizione. Mi pare di scorgere in taluni suoi lavori il sapore essenziale di certa iconografia, di certa cultura orientale, zen. Non ci sono facili mode minimaliste, piuttosto la volontà di entrare nello spirito delle cose.
Si tratta di una ricerca puntuale, con delle regole, in cui è l'attuazione di una grammatica visiva, nemmeno troppo concettuale. Il visivo ha delle regole che se si applicano in una forma appropriata hanno un effetto particolare.
I suoi sono teatri delle cose, in cui Scabar è regista severo. Il richiamo è a certi Tablaux vivants degli esordi della fotografia. Come non pensare a William Henry Fox Talbot, alle sue calotipie, ma anche ad altri fotografi vittoriani1?
Quelli che popolano i suoi lavori sono oggetti banali, che gli trasmettono un'energia particolare. Un'energia che, poi, lui stesso rielabora e ridona loro.
Scabar non è interessato a fotografare cose già belle di per sé, gli piace, piuttosto, offrire nuove interpretazioni di cose che gli capitano, più o meno casualmente, sotto gli occhi, delle quali si impossessa materialmente e visivamente. Quanto fotografa diviene parte della sua collezione di oggetti e della sua memoria. Memoria dei fenomeni, delle atmosfere, che è elemento portante e imprescindibile del suo atteggiamento gnoseologico nei confronti del mondo e dunque della sua ricerca artistica.
 
1 A cura di Q.Bajac, Tableaux Vivants Fantaisies photographiques victoriennes (1840-1880), Réunion des Musées Nationaux, Paris, 1999.
 
Ottobre 2014