ANGELO BERTANI
Le cose messe in posa nel gran teatro della fotografia
Ogni immagine di Scabar, nel suo apparente e ben calibrato anacronismo, ci comunica immediatamente un senso di profondità, di spessore storico, proprio in quanto si offre allo sguardo come sottile indagine sui linguaggi visivi. E' subito evidente infatti che l'artista, ripercorrendone idealmente tutta la storia da Nièpce a Daguerre fino ad oggi, intende innanzi tutto esplorare i confini estremi e ardui della fotografia, là dove può avere origine o viceversa non si dà, non può esistere. Se "fotografia" significa "scrittura con la luce" ebbene Scabar va alla ricerca del principio stesso di questa possibilità, ovvero del valore minimo di luce che coincida con il valore assoluto di linguaggio. La sua è un'analisi che si muove sulla strada della riduzione, della essenzialità, del tutto che deve sapersi presentare nella forma del minimo. Tale processo per la verità ha in sé qualcosa di concettuale: comunica la volontà di ripensare il fondamenti della fotografia per ripartire dagli elementi minimi del linguaggio ed evitare ciò che non necessario, la ridondanza, il rumore, l'eccesso di informazioni spurie che rende confuso e generico il messaggio. Il contenuto prima di tutto è e deve essere la fotografia in quanto tale. I toni estremamente bassi, che tendono al nero (in realtà ad un nero pittorico, ricco di impalpabili gradazioni cromatiche), stanno proprio a significare una volontà riduzionistica che intende sondare la soglia critica al di sotto della quale ci può essere solo l'afasia. Ma è su questo confine estremo, in questo territorio dove non c'è ancora connotazione che può rinascere il linguaggio: rinnovato, puro, autonomo, ri-significante. In effetti la fotografia di Scabar per gran parte è fotografia di oggetti, o meglio di cose e però anche questa sua caratteristica va inquadrata nell'ambito del riduzionismo.
Le cose elette a soggetto sono state isolate dalla realtà e sono state collocate sul predisposto palcoscenico del "Teatro delle cose": tale isolamento intende significare che le entità prescelte devono cessare di venire considerate come oggetti per essere invece interpretate come cose, cioè oggetti eloquenti, carichi di significati soggettivi e collettivi non utilitaristici. In secondo luogo quel porre le cose in una sorta di teatro di posa vuole significare che la fotografia è comunque, letteralmente, "messa in scena", è predisposizione ben calcolata del vedere, è finzione verosimile della realtà, è teatro dell'esistere. Infine la scelta di porre sulla scena della fotografia pochi oggetti, poche cose corrisponde all'intenzione di ridurre al minimo le strutture del linguaggio per rendere più evidente la ricerca di essenzialità nei contenuti e nel metodo. Nel palcoscenico del "Teatro della fotografia" (potremmo chiamarlo anche così, quello messo in campo dal nostro artista) le cose talvolta sembrano emergere dal buio, dal nero dell'assenza per comunicare qualcosa, altre volte invece paiono immergersi o forse ritornare nell'oscurità, nella privazione di senso, nel nulla.
In questa fertile ambiguità, in questa significante ambivalenza sta l'aura seduttiva delle immagini del fotografo goriziano, che sfidano le leggi fisiche della percezione per invitarci, nell'epoca della dittatura pervasiva e globale delle immagini, a guardare con attenzione, a saper vedere, a non credere a ciò che più appare, a ciò che più fa rumore. Perlatro, anche nelle fotografie di Sergio Scabar il silenzio (del nero e del vuoto) è la precondizione necessaria all'ascolto.
 
Il Momento, 2010